Hip hop e architettura

Nel panorama contemporaneo la progettazione partecipata è sempre più rilevante, trova spazio nelle aule universitarie e nelle pagine delle riviste, e sembra l’elemento sine qua non di qualsiasi processo di rigenerazione e riqualificazione urbana. Tuttavia il carattere sperimentale delle sue pratiche la rendono un’attività giovane e talvolta d’avanguardia.  

Come nel caso della proposta del designer Michael Ford che una quindicina di anni fa si laurea a Detroit con una tesi intitolata “Hip Hop Inspired Architecture and Design”, con la quale lancia una provocazione: 

l’architettura e il design possono trarre insegnamento dalle critiche che la cultura hip hop fa all’ambiente costruito?

Detroit – New York City (USA) 

6 aprile 2021

tempo di lettura: 4’ 40’’

La cultura urbana hip hop nasce negli anni ‘70 nel quartiere newyorkese del Bronx di New York City. Più precisamente arriva dai block, gli alienanti quartieri di case popolari costruiti con il piano urbanistico di Robert Moses, uno degli architetti modernisti più criticati dalla società dell’epoca. Infatti, nella metà del secolo scorso, interi sobborghi storici newyorkesi vengono rasi al suolo per fare spazio a giganteschi palazzi di cemento armato che, in molti versi delle più celeberrime musiche hip hop, sono esplicitamente ritenuti responsabili di bad feelings e ingiustizie, o addirittura colpevoli di incitare al suicidio, alla depressione e alla violenza. Si tratta di una questione molto complessa, legata a tematiche altrettanto delicate, come la povertà e la discriminazione razziale, le cui cause non possono essere certo ricondotte solo all’architettura, anche se di certo la stessa architettura potrebbe contribuire ad alleviarle, come nell’ipotesi avanzata da Michael Ford, fondatore dello studio BrandNU Design: 

“Così come l’hip hop dà voce a chi voce non ce l’ha, così la co-progettazione può permettere alle comunità di avere voce in capitolo sugli spazi in cui vivrà e può aiutare i progettisti a comprendere il valore sociale della loro professione”. 

È su questa ipotesi che il designer, nato e cresciuto a Detroit, si dedica, per circa un decennio, all’analisi e allo studio della cultura hip hop, confrontandosi con i migliori artisti e confondendo i confini tra discipline, teoria e realtà. Nel 2016 gli viene assegnato il progetto per l’Universal Hip-hop Museum nel Bronx di NYC. In questa occasione testa un metodo di progettazione partecipata a cui darà il nome di DESIGN CYPHER organizzando tavoli di progettazione misti, aperti cioè a coloro che saranno coinvolti dal e nel progetto: architetti, urbanisti, policymakers, studiosi, studenti, comunità e artisti della cultura hip-hop. Michael modera il gruppo affinché tutti possano contribuire alla creazione di quel qualcosa che li riguarderà tutti direttamente. Durante il processo si producono parole, schizzi, disegni e maquette, “così che, a fine giornata, ciascuno possa avere tra le mani il frutto della propria idea”. La prassi progettuale riscuote un enorme successo perché porta ad un risultato straordinario: le persone si riconoscono negli spazi del museo e nelle sue dinamiche, si sentono partecipi e responsabili della sua cura, perché coinvolti, fin dalla sua creazione, grazie ad un processo in cui ciascuno ha potuto contribuire attivamente con la propria visione e le proprie competenze. 

Il Design Cypher diventa così uno degli assi portanti dello studio di Ford, che riunisce quello che lui stesso definisce l’esercito di hip hop architect. Tra le attività stabili del team c’è il The Hip Hop Architectural Camp un corso doposcuola gratuito per insegnare ai ragazzi e alle ragazze a maneggiare gli strumenti dell’architettura e del design, per poter così partecipare alla costruzione del loro ambiente, per rendere giustizia ai luoghi in cui sono nati e cresciuti e per imparare e dire No alle decisioni calate dall’alto, soprattutto se riguardano tutta la comunità.

©BrandNU Design

La proposta di Michael Ford è una risposta concreta all’invito di NAS, uno degli autori hip hop più celebri, che in un verso delle sue canzoni incoraggia i b-boys and girls a diventare architetti, per costruire le loro stesse comunità. Le pratiche del BranduNU Design stanno riscuotendo un tale successo che hanno trovato il sostegno dell’Autodesk Tinkercad l’app gratuita per la progettazione 3D, l’elettronica e la codifica, così facile che può “essere usata da tutti per immaginare, progettare e creare qualsiasi cosa!”.

Come si può intuire, la ricerca di Michael Ford ha un valore sociale e politico di ampia portata, che va oltre la progettazione. Infatti la sua Hip Hop Architecture è diventata uno slogan per combattere anche la discriminazione razziale nella professione. “Negli Stati Uniti solo il 3% di architetti e designer sono afro-americani” dice nella TEDx Madison conference nella primavera del 2017. E racconta con orgoglio la storia di Tiffany Brown, una giovane afro-americana, nata e cresciuta nella concrete jungle di Detroit, che dopo la laurea in architettura e un master all’MBA torna a casa e promuove la demolizione dei “palazzoni” in cui era cresciuta, riuscendoci e ottenendo giustizia per la sua comunità. 

@Michael Ford

La ricerca di Ford è, per certi versi, estremamente provocatoria, arriva addirittura a chiedersi se Le Corbusier non possa essere considerato il padre dell’hip-hop. Qualunque sia la risposta, le sue pratiche nel campo delle progettazione partecipata meritano di essere annoverate tra le più interessanti della scena contemporanea, perché capaci di infondere fiducia e di dimostrare che, anche nei contesti più difficili, il cambiamento è possibile, in alcuni casi basterebbe rileggere la storia dell’architettura e ascoltare più attentamente un po’ di hip hop music.

©Michael Ford