L’Oceano è uno spazio!

Negli ultimi anni si è giunti alla consapevolezza che l’essere umano sta lasciando delle eredità scomode all’ambiente terrestre e alle future generazioni di esseri viventi. Gli effetti delle sue azioni stanno condizionando la struttura stessa del Pianeta, provocandone alterazioni senza ritorno. Non è ancora chiaro quando esattamente tutto questo sia cominciato, con l’agricoltura? con la rivoluzione industriale? con il nuovo millennio? La comunità scientifica sta cercando risposte, ma nel mentre ha dato una definizione a tutto ciò: viviamo nell’era geologica dell’Antropocene, un termine che circola già dalla fine dell’Ottocento, ma che è stato ufficializzato nel 2000.

Uno degli elementi naturali che sta subendo le conseguenze più dure dell’Antropocene è l’acqua, un problema di portata gigantesca se si pensa che compone il 71% del Pianeta Terra (e anche del nostro corpo). Le interconnessioni dei processi ambientali ed economici in atto nei mari e negli oceani, come la pesca intensiva, l’estrazione mineraria in alto mare e l’inquinamento, alterano correnti, energie e sistemi ecologici, per non parlare del surriscaldamento globale che sta provocando la scomparsa dei ghiacciai. Nonostante la questione sia emergente e urgente, la conoscenza in materia è piuttosto frammentata. Per esempio, difficilmente riusciamo a concepire l’oceano come un unico vasto specchio d’acqua e di conseguenza crediamo ancora che ciò che accade a migliaia di miglia dalle nostre coste non ci riguardi. Invece ci riguarda, eccome! 

© Taloi Havini, Habitat, 2018 – 2019 HD – Foto: Zan Wimberley

Per essere più coscienti di tutto questo si potrebbe cominciare a considerare l’Oceano come uno spazio e a trattarlo con lo stesso grado di investigazione, indagine e progettualità che riserviamo alla superficie terrestre. È proprio sulla base di questo presupposto che nel 2019 è nato Ocean Space, il centro internazionale dedicato alla ricerca, alla tutela e all’educazione all’oceano che ha messo radici, o forse sarebbe meglio dire palafitte, proprio nel luogo che incarna la fragilità e l’urgenza della complessa relazione tra città e oceani: Venezia. La sede scelta è stata la Chiesa di San Lorenzo, ritenuta l’ultima dimora di Marco Polo e rimasta chiusa al pubblico per più di 100 anni, salvo sporadici usi temporanei. La ristrutturazione e riconversione del sito è stata possibile grazie all’impegno della fondazione Thyssen-Bornemisza Art Contemporary che, nell’ambito delle sue attività filantropiche, ha affidato alla sua TBA21–Academy il compito di riportare in vita l’edificio e aprirlo alla comunità con un uso attivo e rigenerativo. 

“Un’installazione luminosa sulla facciata di Ocean Space, Chiesa di San Lorenzo, segna il futuro livello del mare bloccato dal riscaldamento globale – +6m nel prossimo secolo – e richiama l’attenzione sulla vulnerabilità degli oceani e delle comunità umane che dipendono dal suo benessere.”
“When above…”, Territorial Agency, Oceans in Transformation​ (TBA21–Academy) Ocean Space, Venice, 2020. © MARCO_CAPPELLETTI

Ocean Space in pochissimo tempo e nonostante i mesi di pandemia, è diventato “l’ambasciata per gli oceani” promuovendo l’impegno collettivo sulle tematiche oceaniche più urgenti attraverso mostre, esposizioni, promozione di ricerche interdisciplinari e collaborative, produzioni artistiche e nuove forme di conoscenza e programmi pedagogici.


Anche l’architettura e il design sono chiamate a prendere parte a questo dialogo e lavoro collettivo e a far fronte all’ingiustizia ambientale. I primi segnali incoraggianti, e per certi versi rivoluzionari, di questo interesse alla questione oceanica arrivano dalla generazione dei giovani ricercatori. È il caso delle giovanissime Ilaria Furbetta e Teresa Malchiodi Albedi che nel 2019, mentre Ocean Space inaugura al pubblico, si laureano in architettura al Politecnico di Milano con la tesi:

“What about the other 71%? Ocean as a Performative Landscape” 

E l’altro 71%?”

È proprio questa la domanda da cui scaturisce la ricerca che si situa all’intersezione tra paesaggio e geografia e che indaga come gli aspetti socio-economici su scala globale plasmano l’evoluzione dell’Oceano che, in questo contesto, diviene uno spazio da “colonizzare” e un terreno produttivo. 

“Le attività di sfruttamento stanno generando una pressione sul paesaggio oceanico, per questo è sempre più urgente chiarire i suoi limiti, conoscendolo e analizzando le azioni attive e retroattive dei diversi dispositivi di design che lo alterano”. 

Queste le parole di Ilaria e Teresa che con il loro progetto visionario sono riuscite a superare la dicotomia natura e cultura, umano e non umano, architettura e paesaggio. Il loro approccio quantitativo ha permesso di restituire una mappatura, combinata con l’analisi dei dati, dell’infrastruttura acquatica e ad individuare i cinque asset strategici che stanno influenzando l’equilibrio del paesaggio oceanico perché accomunati da un’urgente e spasmodica necessità di risorse: Techno-Sea, Artificial Gulf, Clarion Clipperton Mine, Atlantic Highway, e Pacific Stockpile.

La tesi di queste giovanissime ricercatrici rappresenta un contributo importante per cogliere e interpretare la complessità su scala planetaria di questo ambiente e dei suoi agenti. Per saperne di più dovremo attendere la primavera con la pubblicazione Blue Infrastructure”, basata sulla ricerca ed edita da ListLAB; oppure è possibile seguire gli sviluppi del progetto a questo link. 

Fino a quel momento, e con la complicità delle vacanze imminenti, non resta che provare a guardare l’oceano e il mare con occhi nuovi e magari concedersi una gita a Venezia. Siamo certi che l’anima di Marco Polo ancora vaghi tra le pareti della Chiesa di San Lorenzo, pronta a motivare quei viaggiatori visionari che saranno disposti a spingersi oltre le città invisibili e ad esplorare acque sconosciute! 

Territorial Agency, Oceans in Transformation​ (TBA21–Academy) – Chiesa di San Lorenzo, Venezia, 2020. © Enrico Fiorese