Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità

Nel salone di Luisa, raffinata parrucchiera abilissima nel mescolare gli attrezzi del mestiere con oggetti di design, nuove tendenze e pezzi d’arredo, capeggia una pila di Playboy. Sfogliandolo – per la prima volta nella vita, lo ammetto – mi trovo immersa in un mondo molto diverso da quello che avevo immaginato. Le pagine, che credevo popolate solo da ragazze nude con orecchie da coniglio, sono per lo più occupate da articoli di lifestyle, innovazione urbana e politica, e i pochi nudi, sia femminili che maschili, sono più vicini all’arte che alla pornografia. Se non fosse per il coniglio con papillon in copertina e per gli stereotipi che si porta dietro, Playboy potrebbe tranquillamente essere una rivista di attualità con uno spiccato interesse per l’architettura, il design e la città.

La riflessione fa affiorare un ricordo che metto a fuoco tra gli scaffali della libreria. Paul B. Preciado, scrittore e filosofo spagnolo, nel 2010 pubblicava “Pornotópia. Arquitectura y sexualidade en “Playboy” durante la guerra fría” tradotto in italiano nel 2011 in “PORNOTOPIA. Playboy: architettura e sessualità” (Fandango). 


Il libro inizia così:

Questo progetto è nato da una notte insonne. Guardavo la televisione, mentre tentavo senza successo di dormire nel mio appartamento di Brooklyn, quando, all’improvviso, ho sentito Hugh Hafner, il direttore di Playboy, che in pigiama, vestaglia e pantofole parlava dell’importanza dell’architettura nell’impero che egli stesso aveva creato… 

La ricerca vale a Preciado il dottorato in filosofia e teoria dell’architettura a Princeton (New Jersey, USA) e svela il valore architettonico-mediatico del fenomeno Playboy, una rivoluzione nei costumi della società americana cominciata con la diffusione a mezzo stampa di un nuovo modo di vivere e raccontare lo spazio. 

Iniziato nel 1953 con pochissime aspettative (il suo fondatore non credeva nemmeno di poter pubblicare il secondo numero), Playboy diviene in pochi anni una piattaforma di diffusione dell’architettura e del design come beni di consumo primari della nuova cultura popolare americana. Ma non solo. La rivista infatti offre un’alternativa al tradizionale nucleo familiare americano che si identifica in una nuova domesticità, all’improvviso spettacolarizzata; si mischia il confine tra pubblico e privato e inizia quella trasformazione dell’architettura, attraverso i mezzi di comunicazione, che prosegue inarrestabile dalla seconda metà del Novecento.

La parola stessa “Play-boy” ha un significato molto esplicito: in pieno oscurantismo e in contrapposizione al razionalismo dell’International Style, in voga già da una ventina d’anni, Hafner propone uno stile di vita diametralmente opposto basato sul gioco a tutto tondo, sul superamento dei confini e dei limiti, su un modo di vivere la casa e lo spazio più rilassato, fluido, ozioso, addirittura teatrale. Cosa c’entra la casa? Tutto! Perché come lo stesso padre di Playboy ha dichiarato:

se vuoi cambiare un uomo, cambia la sua casa!

che potrebbe tradursi con “siamo i luoghi che abitiamo” o meglio ancora dal pensiero filosofico di Preciado: “Non si accede alla soggettività attraverso una narrazione psicologica bensì attraverso la rappresentazione architettonica”.

Quella di Hafner è una proposta che piace molto alla popolazione americana e che convince anche architetti e urbanisti che cominciano a scoprire l’interno degli appartamenti e a svelare l’esistenza di una mappa della città, sovrapposta a quella legale, nella quale “l’industria del gioco e del sesso disegnano le loro proprie vie e strade d’accesso”.

Così mentre Mies van der Rohe spogliava l’architettura, eliminando le pareti interne e ogni decorazione, Hafner insiste nel mettere a nudo la domesticità, svelando il carattere teatrale e politico dell’architettura che considera gli abitanti come i suoi stessi attori e spettatori. Il protagonista assoluto è lo scapolo che vive in un attico circondato da dispositivi tecnici (è l’epoca dell’avvento degli elettrodomestici), con spazi fluidi e intercambiabili, adatti ad accogliere ogni giorno ospiti e compagni/e di gioco. Quale ruolo riveste la donna in tutto questo? Rappresentata come “la ragazza della porta accanto”, viene liberata dal ruolo di “donna di casa” proprio dagli elettrodomestici che le consentono di avere più tempo per abbandonarsi all’arte del piacere e della seduzione, ma che a dirla tutta viene così “rimpiazzata” e soppiantata anche dalla casa, suo regno da sempre, per diventare spettatrice passiva della mascolinità. Playboy infatti contribuisce enormemente a diffondere quell’immaginario eterosessuale e patriarcale che da sempre va a braccetto con il capitalismo che mette sullo stesso piano potere-denaro-piacere e che ha plasmato intere generazioni di uomini, donne e luoghi.

In poco meno di una decina d’anni Playboy colonizza anche la città. Il processo inizia nel 1960 a Chicago dove nascono i primi club dal “design moderno” che, dissimulando le forme del bordello, aprono le porte a manager e professionisti della classe medio-borghese e non più solo ai rigidi membri di società massoniche, e che culmina quando Hafner acquista nel 1965 il grattacielo di 37 piani noto come “Edificio Palmolive”.

È così che la rivista si trasforma in un luogo, anzi in un arcipelago di templi dell’edonismo, della psichedelia e della cultura popolare che colonizzano la mente degli americani e le loro città, dando origine a quel fenomeno che Preciado definisce come Pornotopia

1insieme di spazi, pubblici e privati, dove teatralizzare la sessualità e il piacere secondo leggi, codici e comportamenti propri e abitualmente non visibili nella cartografia urbana, eppure protagonisti del paesaggio. A pensarci bene ogni città tanto nel passato quanto nel presente ha una topografia sessuale che tende a mascherare, composta da quei luoghi che quotidianamente accolgono, più o meno consapevolmente, performance che hanno a che vedere con il genere, le pratiche del corpo, i rituali di produzione del piacere. Basti pensare ai manifesti pubblicitari o alle recenti manifestazioni per la parità di genere che investono letteralmente lo spazio pubblico.

Ad oggi quello di Playboy è un impero in crisi. L’ultimo numero cartaceo è uscito nel marzo del 2020 eppure molte delle sue trasformazioni sopravvivono proprio in fenomeni che sembrano aver preso vita dalle intuizioni di Hefner: basti pensare alla spettacolarizzazione estrema dell’intimità che ha portato al fenomeno dei reality (primo fra tutti il Grande Fratello) o, come scrive Preciado “al mito della mascolinità che sopravvive nei video degli hip-hopper che, per far fronte alle minacce della liberazione femminile e dell’utopia transgenere, continuano a mostrare la donna come un oggetto, ora non più domestico ma urbano”. 

Insomma sembra che ancora per qualche anno continueremo ad abitare la pornotopia, forse  fino a quando una nuova casa ci suggerirà che tipo di uomini e donne essere, sperando che per allora la parità di genere sia la norma.