Autrice: Ludovica Zen
“Le nostre città sono patriarcato scritto in pietra, mattoni, vetro e cemento” Jane Darke, 1996.
Mentre l’8 marzo di due anni fa ci preparavamo al primo lockdown nazionale, oggi le piazze sono nuovamente affollate in occasione delle manifestazioni per la Giornata internazionale della donna, che quest’anno si intrecciano alle proteste per circostanze ben poco felici, a cui non avremmo mai voluto assistere.
Le manifestazioni femministe ci ricordano quanto è importante per le donne la riappropriazione di un proprio spazio all’interno della città: attorno a questa idea ruota l’urbanistica femminista, disciplina che studia lo spazio urbano in ottica di genere e propone soluzioni per una città democratica, inclusiva e, usando le parole di Leslie Kern, autrice del saggio “Feminist City” (2019), “non sessista”. Kern, a partire dalla propria esperienza, racconta il rapporto della donna con lo spazio urbano e come questo tende spesso a sfavorire il genere femminile.
“Le mie esperienze urbane sono determinate dalla mia identità di genere. Il mio essere donna determina il modo in cui mi muovo per la città, il modo in cui vivo la mia vita giorno dopo giorno e le scelte a mia disposizione”.
Leslie Kern, “La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini”, Treccani, 2021.
La tipologia di trama urbana, la dislocazione delle diverse attività, la pianificazione della mobilità delle persone, il disegno degli spazi pubblici, tutto ciò incide direttamente sulla vita degli e delle abitanti della città. Questi aspetti non sono casuali e non hanno un carattere neutrale, ma rispondono spesso alle priorità e alle gerarchie proprie di un sistema dall’organizzazione economica capitalista e una struttura di ordine sociale patriarcale. L’intento dell’urbanistica femminista è proprio quello di rivedere gli spazi urbani per trasformarli e riprogrammare le priorità a favore di chi li abita.
Da sempre le donne sono alla ricerca del proprio spazio, non solo figurato, ma anche e soprattutto fisico, al di fuori dell’ambiente domestico al quale sono state relegate per secoli.
Nel libro “Lo spazio delle donne” (Einaudi, 2022), Daniela Brogi scrive: “La nostra vita è fatta di situazioni in cui le parole, le azioni, gli sguardi e i corpi esistono perché occupano certi spazi. […] Se questo è vero in generale, per le donne vale anche di più, perché lo spazio in molti casi ha funzionato come cifra di un destino imposto”. Si tratta di donne confinate in spazi privati, “palazzi nascosti, case dimenticate, camere, giardini segreti, stanze con finestre, cucine, soffitte, collegi, stalle, celle di monasteri, salottini e ogni altra forma di luogo chiuso, separato dal mondo di fuori”.
Già nel 1405 Christine de Pizan, la prima donna scrittrice e storica di professione, crea uno spazio virtuale dedicato alle sole donne nel libro “La città delle dame”, dove queste avrebbero potuto vivere al sicuro dalla violenza e dalla prevaricazione degli uomini appropriandosi dello spazio pubblico ed esterno alla dimora.
Il 1929 è l’anno di pubblicazione del celebre “A room of one’s own”, “Una stanza tutta per sé”, di Virginia Woolf, saggio in cui, attraverso la metafora della stanza, la scrittrice britannica afferma la necessità della partecipazione del genere femminile al mondo della cultura, appannaggio tradizionalmente maschile.
Più avanti, nel 1977, compare su Effe, storica rivista sul movimento femminista, l’articolo “Ottica femminile in architettura”, che tratta l’importanza dell’appropriazione della disciplina dalla parte delle donne per “ripercorrere la storia del territorio, della città e dell’abitazione, alla ricerca del luogo di confinamento di uno dei due protagonisti: la donna”. La segregazione di genere negli spazi domestici, ma anche in determinati luoghi pubblici, si traduce nella città moderna in termini di “ostilità” di cui si fa esperienza concretamente attraverso la “mancanza di spazi, di servizi, complessivamente di “libertà”” rispetto alle esigenze della donna.
La città non può che riflettere la disparità di genere che tuttora invade l’intera società: naturalmente questo è dovuto soprattutto al fatto che i grandi architetti e urbanisti sono e sono stati per la maggior parte uomini che non hanno saputo tener conto delle esigenze non solo delle donne, ma anche delle diverse categorie sociali e delle minoranze di genere. Il fatto di avere più donne architette, però, potrebbe non essere sufficiente per risolvere la questione, perché il genere femminile stesso ha interiorizzato gli stereotipi dello sguardo maschile e a fatica tenta di allontanarsene. Ciò che può fare davvero la differenza è una rilettura dell’ambiente urbano e dell’organizzazione dei suoi spazi.
Tra le questioni più serie che il male gaze non ha tenuto in considerazione nella pianificazione urbanistica c’è sicuramente la sicurezza, o meglio, il senso di insicurezza percepito dalle donne in alcuni luoghi e momenti della vita in città. Uno studio globale di Hollaback!, movimento contro le molestie di strada, e della Cornell University ha dimostrato che più dell’81,5% delle donne europee sono state molestate per strada prima dei 17 anni, ma un dato preoccupante riguarda l’Italia, in cui più dell’88% delle donne intervistate ha dichiarato di aver cambiato percorso per tornare a casa in seguito a molestie. La scarsa illuminazione, il poco controllo e la mancanza di trasporti adeguati, soprattutto nelle ore notturne, favoriscono il senso di paura che priva la donna del “diritto alla città”, il diritto a sentirsi sicura nello spazio in cui vive, in cui si crea una sorta di mappa del pericolo che si trasforma a seconda dell’età, del momento della giornata, della compagnia con cui si percorrono le vie della città.
L’organizzazione della mobilità, infatti, sfavorisce il genere femminile, dal momento che il trasporto urbano si concentra prevalentemente sulle ore di punta lavorative, trascurando parti della giornata, come quelli in cui si portano i figli a scuola o si fa la spesa, attività che tuttora sono spesso prerogativa femminile. Con la pandemia, la situazione è peggiorata: molte linee, soprattutto quelle notturne, sono sospese, limitando molte donne che lavorano in orari scomodi, costringendole spesso a dover pagare un taxi o a dover attendere i mezzi per più tempo al buio e isolate.
Una questione spinosa riguarda poi i servizi igienici, spesso carenti e non accessibili: quante volte ci siamo trovati di fronte a lunghissime file solo davanti al bagno delle donne? Qualche studiosa propone la soluzione dei bagni gender neutral, forniti di tutti i servizi necessari per tutti e tutte, come ad esempio il fasciatoio, di cui molto spesso i bagni sono privi. La sfera della maternità è un elemento cruciale per diversi motivi, basti pensare alla mobilità con il passeggino in città o agli spazi per l’allattamento, spesso sfavorito nei luoghi pubblici. Statisticamente, infatti, è proprio sulla donna che ricade prevalentemente il compito della cura di figli e figlie.
L’urbanistica femminista si sta notevolmente sviluppando a livello teorico negli ultimi anni, ma c’è chi da tempo promuove progetti e propone soluzioni per una metamorfosi femminista dello spazio urbano.
Il Col-lectiu Punt 6, collettivo catalano, dal 2005 opera per il ripensamento degli spazi della città in ottica di genere. Qui la raccolta dei vari progetti realizzati dal gruppo, come il progetto per lo spazio verde multifunzionale, accessibile e inclusivo di Plaça de Sóller, nel Barrio de Porta di Barcellona, oppure il laboratorio delle donne per integrare criteri di genere nel Piano Speciale del Parque de la Devesa di Girona (Catalogna). “Urbanismo Feminista” (2019), libro edito da Virus, raccoglie i principi che guidano la pratica urbanistica di Punt 6: il fulcro della ricerca del collettivo è la vita quotidiana degli e delle abitanti delle città, poiché solo a partire dalla loro esperienza e coinvolgimento è possibile creare uno spazio a misura di donna. La città contemporanea deve quindi essere “quotidiana”, pensata in ottica interdisciplinare attraversando i criteri di vicinanza, vitalità, diversità, autonomia e rappresentatività.
Tornando in Italia, l’associazione Sex & The City Milano, attraverso progetti, incontri e ricerche promuove una lettura di genere degli spazi urbani che superi i dualismi maschile-femminile, produzione-riproduzione, spazio pubblico-spazio privato nell’urbanistica. In particolare, il progetto, curato da Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, studia gli usi della città da parte delle donne e delle minoranze di genere, la percezione dell’insicurezza nello spazio pubblico e la rappresentazione pubblica dei generi nella toponomastica, nella statuaria e nella titolazione degli edifici pubblici. Quest’ultimo è un dato da non sottovalutare: secondo i dati della Rete Toponomastica Femminile, su 4250 spazi pubblici milanesi, solo 141 sono intitolati a donne, principalmente figure del mondo religioso. A gennaio 2022 è uscito “Milan Gender Atlas”, un atlante teorico e pratico della città che decostruisce lo spazio urbano contemporaneo osservandolo attraverso le lenti del genere con l’obiettivo di incontrare le esigenze delle donne e delle minoranze.
Dedichiamo allora questo 8 marzo all’importanza dell’architettura come gesto politico nel e per lo spazio urbano, soprattutto ora che l’inclusività ricopre un ruolo sempre più rilevante nel dibattito pubblico. L’urbanistica di genere può davvero trasformare la città incontrando e accogliendo le necessità di chi la vive.